Contratto di locazione: le parti essenziali

Quali sono le parti essenziali di un contratto di locazione? Come deve essere strutturato un contratto di locazione affinché tuteli al meglio le parti in causa? Tutte le informazioni utili in questo contributo. 

In linea generale, la locazione è il contratto con il quale una parte – tecnicamente definita locatore – si obbliga a far godere un bene all’altra – definita conduttore – per un periodo di tempo determinato, in cambio di un corrispettivo: specificamente, il locatore si obbliga a consentire la fruizione del bene oggetto della locazione in favore del conduttore, il quale, di conseguenza, in ragione del godimento di detto bene, si obbliga, a sua volta, a riconoscere un corrispettivo nei confronti del locatore.

Natura e parti del contratto di locazione

Il rapporto che deriva dal contratto di locazione ha natura personale. Ne deriva che non è necessario che chi intenda concedere un bene in locazione vanti sul medesimo un diritto reale: è infatti sufficiente che questi ne abbia la disponibilità. Questo aspetto permette al detentore di poter stipulare, con il consenso del dante causa, contratti di sublocazione.

Più controversa appare la questione se debba trattarsi di una disponibilità giuridica e non di mero fatto: detta disponibilità deve fondarsi necessariamente su un rapporto o titolo giuridico idoneo a giustificare il potere del locatore di trasferire al conduttore la detenzione e il godimento del bene.

Invero, il principio secondo cui è valido il contratto di locazione stipulato da chiunque abbia la disponibilità (anche soltanto) di fatto di un bene trova un più diffuso riconoscimento giurisprudenziale: l’unica eccezione è rappresentata dall’ipotesi in cui la detenzione da parte del locatore sia stata acquisita vi aut clam, o comunque in violazione di norme di ordine pubblico (come nel caso dell’usurpatore): si chiarisce però che in tali casi l’invalidità del contratto discende dall’illiceità del suo oggetto, non dal difetto di legittimazione del locatore.

Peraltro, le pronunce di legittimità in cui si è esclusa la legittimazione ad assumere la veste di locatore in capo a chi non vanti un legittimo titolo giuridico di disponibilità della cosa locata riguardavano fattispecie aventi ad oggetto non gli effetti della risoluzione per inadempimento del contratto di locazione, ma il diverso problema dell’opponibilità della locazione stipulata a non domino al vero titolare del potere di disporre della cosa. Si è così specificamente affermato che il possesso da parte del locatore di un titolo giuridico per disporre del bene è necessario “solo per negare la possibilità di opporre, al terzo proprietario, il contratto locativo stipulato dal detentore senza titolo, non anche per riconoscere l’inefficacia del contratto nel rapporto interno tra il locatore che abbia ceduto in locazione il bene senza titolo detenuto ed il conduttore che, in forza del contratto, abbia di fatto utilizzato l’immobile locato” (Cass. civ., 11 aprile 2006, n. 8411).

In altri termini, il difetto di potere dispositivo in capo al locatore non è di per sé sufficiente per ritenere il contratto stipulato a non domino non vincolante per le parti: nel rapporto tra il locatore ed il conduttore, pertanto, il contratto stipulato dal detentore di fatto è valido e vincolante, salva l’ipotesi estrema in cui la detenzione sia stata acquistata illecitamente.

Si segnala inoltre che la concessione in locazione di un bene comporta, di norma, una cessione dell’esercizio delle facoltà d’uso del medesimo tale da non lasciare margini di godimento residuo al locatore; tuttavia, ai fini della configurabilità della fattispecie in questione, non occorre che al conduttore si trasmettano, in maniera integrale, le utilità che si possono trarre dalla cosa locata. In altri termini, è ben possibile che le parti contraenti stabiliscano che il diritto di godimento – con conseguenti obblighi – sia limitato ad una specifica utilità del bene, escludendosi dunque la detenzione in via esclusiva della cosa locata in capo al conduttore. Nella pratica è, ad esempio, piuttosto ricorrente la concessione, dietro corrispettivo e per un determinato periodo di tempo, dell’uso di parti di edifici o di nude aree per l’installazione di cartelloni, insegne pubblicitarie, vetrinette: la prevalente giurisprudenza di legittimità riconduce quindi ad un’ipotesi di locazione c.d. limitata, pur sempre rientrante nel contratto tipico ex articolo 1571 c.c., la convenzione che preveda l’impegno di fare appoggiare, al muro di un edificio, un’insegna pubblicitaria.

La durata del contratto di locazione

Nel contratto di locazione la durata costituisce un elemento essenziale: si ricorda infatti come il dato normativo (articolo 1571 del codice civile) sancisca espressamente, quale obbligo principale del locatore, quello di far godere al conduttore il bene “per un dato tempo.

Il Codice civile stabilisce inoltre un termine massimo di durata, prevedendo che la locazione non possa avere durata superiore a trent’anni (articolo 1573 codice civile), mentre nulla è disciplinato in ordine ad un termine minimo.

Fissa invece una durata minima la legislazione speciale (Legge n. 431/98, che ha modificato e integrato la Legge n. 392/78, cd. legge dell’equo canone – peraltro ancora in vigore per alcune fattispecie), la quale disciplina il regime della durata (nonché facoltà di recesso e risoluzione) dei contratti di locazione aventi ad oggetto beni immobili siti in zone urbane, che vengono, a loro volta, distinti a seconda che siano adibiti:

  •  Ad uso abitativo, oppure
  •  Ad uso diverso da quello di abitazione (cioè ad attività commerciali, industriali, artigianali, turistiche o professionali).

Si segnala peraltro che, con l’entrata in vigore della Legge n. 392/78 e della Legge n. 431/98, la disciplina codicistica ha assunto un valore residuale, mantenendo rilevanza solo per le locazioni mobiliari e per quelle immobiliari non soggette all’equo canone ai sensi dell’articolo 26 della Lgge n. 392/78.

Per le fattispecie residue regolate dal Codice il termine di durata è specificamente rimesso alla libera determinazione delle parti, tenendo comunque conto che le locazioni stipulate senza la fissazione di un termine non sono nulle, dal momento che in tali ipotesi la legge interviene e fornisce un termine legale prestabilito da ricercarsi nella legislazione speciale e nell’articolo 1574 c.c.

Quest’ultima norma stabilisce, in particolare, che: “Quando le parti non hanno determinato la durata della locazione, questa si intende convenuta:

  • 1) se si tratta di case senza arredamento di mobili o di locali per l’esercizio di una professione, di un’industria o di un commercio, per la durata di un anno, salvi gli usi locali;
  • 2)se si tratta di camere o di appartamenti mobiliati, per la durata corrispondente all’unità di tempo a cui è commisurata la pigione“.

Peraltro, come anticipato, l’articolo 1573 c.c. stabilisce che “Salvo diverse norme di legge, la locazione non può stipularsi per un tempo eccedente i trent’anni. Se stipulata per un periodo più lungo o in perpetuo, è ridotta al termine suddetto“: una durata eccessiva contrasterebbe con le caratteristiche essenziali del contratto; di conseguenza, la legge prescrive una durata massima alla quale vanno ridotti i contratti stipulati per un tempo eccedente. Si rammenta che si tratta di una norma di interesse generale e di ordine pubblico, che pone un limite di natura sostanziale e non formale all’autonomia privata; ne consegue che la riduzione in essa fissata è applicabile anche d’ufficio dal giudice.

Fine della locazione e disdetta

Come rilevato, nella disciplina codicistica la durata del rapporto può essere autonomamente e liberamente prevista dalle parti: in tal caso, lo spirare del termine finale di durata determina la cessazione del contratto senza che occorra alcuna comunicazione di disdetta (articolo 1596, comma 1, c.c.).

Diversamente, la locazione senza determinazione di durata – per la quale, si rammenta, varrà il termine di cui all’articolo 1574 c.c. – richiede, ai fini della cessazione del rapporto, un’espressa manifestazione di volontà in tal senso, da portare a conoscenza dell’altra parte, specificamente “nel termine determinato dalle parti o dagli usi” (articolo 1596, comma 2, c.c.).

Con riferimento alla disdetta, si rammenta peraltro che trova pacifico accoglimento nella giurisprudenza di legittimità il principio della libertà di forme: si è infatti, anche di recente, ribadito come “essa costituisce atto negoziale unilaterale e recettizio, espressione di un diritto potestativo attribuito ex lege al locatore e concretantesi in una manifestazione di volontà diretta ad impedire la prosecuzione o la rinnovazione tacita del rapporto locativo: atto che può essere comunicato in qualsiasi modo, purché idoneo a portare a conoscenza del conduttore l’inequivoca volontà del locatore di non rinnovare il rapporto alla scadenza. In tale contesto è stato anche significativamente evidenziato che la stessa sua comunicazione a mezzo lettera raccomandata, prevista dall’articolo 3 della Legge n. 392/78, peraltro abrogato dall’articolo 14 della Legge n. 431/98, non è forma prescritta a pena di nullità.

Va ad ogni modo rilevato che è ben possibile che le parti stabiliscano contrattualmente che la disdetta debba essere comunicata in forma scritta; al riguardo si rammenta una pronuncia della Suprema Corte che fa salva “la forma scritta convenzionale di cui all’articolo 1352 c.c. – norma che dispone espressamente che “Se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo“.

Da tanto può quindi evincersi che, se le parti, volontariamente – a prescindere quindi dal richiamo e o dall’applicazione di norme di legge -, individuano una forma particolare per la comunicazione della disdetta del contratto, detta forma potrebbe essere interpretata ad substantiam, ossia come necessaria per la sua stessa validità, e non semplicemente ad probationem.

La rinnovazione tacita

Ai fini della configurabilità della rinnovazione tacita del contratto di locazione, occorre, da un lato, la continuazione della detenzione della cosa da parte del conduttore e, dall’altro, la mancanza di una manifestazione di volontà contraria da parte del locatore.

Tuttavia, nell’ipotesi in cui il locatore abbia comunicato la sua intenzione di porre fine al rapporto, la prosecuzione del medesimo – e quindi la sua rinnovazione – non potrà essere desunta dalla permanenza del locatario nell’immobile locato dopo la scadenza, o dalla circostanza che il locatore abbia continuato a percepire il canone senza proporre tempestivamente azione di rilascio: occorrerà infatti un comportamento positivo idoneo ad evidenziare una nuova volontà, contraria a quella in precedenza manifestata nel senso della cessazione del rapporto.

Si tratta di un principio che trova costante affermazione in giurisprudenza, anche nell’ipotesi in cui trascorra un lungo periodo tra la disdetta e l’intimazione dello sfratto per finita locazione (Cass. civ., 14 marzo 2006, n. 5464).

La forma del contratto di locazione

Il contratto di locazione ha forma libera: il Codice civile che ne disciplina le regole e il contenuto non richiede infatti una forma contrattuale tipica e specifica; pertanto, le parti potrebbero anche accordarsi oralmente, o addirittura, come nel caso di locazione di beni mobili, l’accordo si potrebbe dedurre anche dai c.d. fatti concludenti, facendo cioè riferimento al particolare comportamento tenuto dalle parti.

Tuttavia, se il contratto ha per oggetto un bene immobile e ha una durata superiore ai nove anni, è richiesta la forma scritta a pena di nullità (articolo 1350, n. 8, c.c.); l’atto dovrà essere inoltre trascritto presso la conservatoria dei Registri Immobiliari.

Si anticipa inoltre che la Legge n. 431/98 ha radicalmente mutato il quadro normativo di riferimento, sancendo espressamente, all’art. 1, comma 4, l’obbligatorietà della forma scritta per i contratti di locazione ad uso abitativo.

Si tratterebbe di una nullità assoluta ed imprescrittibile, deducibile da chiunque vi abbia interesse e rilevabile d’ufficio dal giudice.

Al riguardo si è specificamente affermato che “La ratio è da rinvenire nell’esigenza di certezza e trasparenza del rapporto sia tra le parti che nei confronti del Fisco ed è chiaramente destinata a fronteggiare un mercato caratterizzato da una consolidata prassi di contratti in tutto od in parte simulati […] La lettura secondo cui il difetto della forma scritta darebbe luogo ad una nullità relativa, suscettibile di essere fatta valere solo dalla parte debole del contratto, vale a dire dal conduttore, non trova, invero, quel tassativo riscontro normativo che, ai sensi dell’art. 1421 c.c. (‘Salve diverse disposizioni di legge, …’) è imprescindibile per derogare alla regola della nullità assoluta. Si può, del resto, osservare che la forma scritta è imposta non solo nei modelli ordinari di locazione abitativa ma anche in quelle tipologie speciali nelle quali il conduttore non potrebbe ritenersi a priori parte debole, in quanto l’immobile è costituito da una villa o da un castello o da un alloggio in una nota località turistica (art. 1, co. 2, lett. a, c). Inoltre, la scrittura giova di regola anche al locatore, il quale può trarre dalla formulazione scritta delle clausole sul canone, sugli oneri accessori e sulla durata i vantaggi relativi alla certezza dei crediti ed all’agevole assolvimento dell’onere della prova, specie ai fini della formazione del titolo esecutivo in sede di procedimento di convalida di sfratto“.

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